Corte Costituzionale: nei processi per il reato di tortura il giudice può procedere in assenza dell’imputato anche in caso di mancata collaborazione da parte dello Stato di appartenenza dello stesso

Con sentenza n. 192/2023 del 27.09.2023 dep. il 26.10.2023 la Corte Costituzionale ha dato nuovo impulso al processo relativo al cd. caso Regeni.

Notoriamente tale processo era rimasto in stallo in quanto, a causa della mancata cooperazione da parte dell’Egitto, non era possibile acquisire al processo la prova del fatto che gli imputati, ovvero i quattro agenti della National Security Agency egiziana, fossero a conoscenza della pendenza del procedimento penale a loro carico in Italia.

Nelle motivazioni depositate lo scorso 26 ottobre 2023 la Corte Costituzionale ha, anzitutto, premesso che “la tortura è un delitto contro la persona e un crimine contro l’umanità” e che “la mancata comunicazione da parte dello Stato egiziano degli indirizzi dei propri dipendenti ha impedito finora…la celebrazione di un processo viceversa imposto dalla Convenzione di New York contro la tortura, in linea con il diritto internazionale generale”. Sulla scorta di tali premesse la Corte ha poi rilevato che tale situazione ha comportato una inaccettabile frustrazione di un processo la cui celebrazione è imposta dal diritto costituzionale, europeo e internazionale, creando una immunità di fatto ostativa all’accertamento dei crimini di tortura. 

Sulla base di tali considerazioni la Corte Costituzionale ha, pertanto, pronunciato l’illegittimità costituzionale dell’art. 420 bis comma 3 c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa.

Cassazione Civile: domanda cumulata di separazione e divorzio possibile anche con ricorso congiunto.  

Con sentenza n. 28727, del 16/10/2023 la Corte di Cassazione, in sede di rinvio pregiudiziale, ha affermato che è possibile proporre domanda cumulata di separazione e divorzio anche tramite ricorso congiunto dei coniugi.

La pronuncia compone, così, il contrasto interpretativo che si era creato in seno a vari tribunali di merito, che si erano divisi tra quanti ritenevano il cumulo ammissibile anche nella procedura consensuale (es. Tribunale di Milano) e quanti, invece, ritenevano applicabile il cumulo delle domande di separazione e divorzio soltanto alla procedura giudiziale (es. Tribunale di Firenze).

Cassazione penale: l’obbligo di mantenimento dei figli a carico dei genitori ha effetto retroattivo nel caso di riconoscimento giudiziale dello status

Con sentenza 40698/23 del 5.10.2023 la Corte di Cassazione ha affermato il principio per cui, in tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare di cui all’art. 570 c.p. l’obbligo di mantenimento dei figli retroagisce al momento della loro nascita anche nel caso di accertamento giudiziale definitivo dello status.  

Il caso trae origine dal procedimento penale a carico di un uomo che era andato avanti fino alla pronuncia della sentenza nonostante il procedimento civile di accertamento giudiziale della paternità pendesse ancora in grado di appello.

Nel suo ragionamento la Corte di Cassazione ha, infatti, osservato che, ciò che conta in sostanza, è che lo status di figlio sia accertato in sede civile con sentenza irrevocabile, a nulla rilevando che nell’ambito di tale giudizio siano intervenute sentenze non definitive che pure abbiano accertato la paternità sulla base della prova del DNA.    

Corte Europea per i diritti dell’Uomo: violazione dell’art. 2 CEDU (diritto alla vita) da parte dell’Italia

Con sentenza del 14.09.2023 nell’ambito del caso Ainis e altri c. Italia (ric. 2264/12) la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha ravvisato una violazione del diritto alla vita (art. 2 CEDU) da parte dell’Italia a seguito del decesso per overdose di un uomo mentre lo stesso si trovava in custodia delle forze di Polizia.

L’uomo, infatti, che versava in gravi condizioni già al momento dell’arresto, veniva trasportato nella notte in ospedale dove sarebbe deceduto qualche ora dopo. La causa del decesso veniva successivamente individuata nella cronica intossicazione derivante dall’assunzione di cocaina in un orario prossimo a quello della morte.  

I prossimi congiunti del deceduto agivano in sede civile contro il Ministero dell’Interno. L’azione civile veniva, però, respinta dai giudici italiani, per i quali non sussisteva alcuna responsabilità da parte degli agenti di Polizia.

Nella sua decisione, invece, la Corte Europea ha osservato che, sebbene non vi fosse la prova del fatto che le Autorità italiane fossero effettivamente consapevoli della gravità delle condizioni in cui versava l’arrestato, esse avevano comunque il dovere di adottare delle precauzioni basilari per minimizzare ogni rischio potenziale alla sua salute.  Inoltre la Corte ha rilevato che, a seguito del suo ingresso in Questura, il detenuto non era stato adeguatamente supervisionato dagli agenti, non aveva ricevuto attenzione medica e non era stato sottoposto a perquisizione personale per evitare il rischio che potesse avere della droga con sé.

In conclusione la Corte EDU ha affermato che le Autorità italiane non avevano accordato all’uomo una protezione sufficiente del suo diritto alla vita, con conseguente violazione dell’art. 2 CEDU

Corte Europea per i diritti dell’Uomo: violazione dell’art. 8 CEDU da parte dell’Italia per mancato riconoscimento del legame parentale tra padre biologico e figlia nata in Ucraina a seguito di GPA

Con una interessante e recente sentenza del 31.08.2023 la Corte EDU ha affrontato la questione del riconoscimento del legame giuridico tra una bambina nata in Ucraina a seguito di una procedura di gestazione per altri (GPA) e i relativi “genitori” costituiti dal padre biologico e dalla madre intenzionale.

In virtù di tale procedura, infatti, la bambina era nata nel 2019 a seguito della fecondazione di un ovulo fornito da una anonima donatrice con il seme del padre biologico. L’embrione veniva, successivamente, impiantato nell’utero di una terza donna che aveva portato avanti la gravidanza per conto della coppia italiana. A seguito del rifiuto, da parte delle Autorità Italiane, di trascrivere il certificato di nascita della bambina per motivi di ordine pubblico, la coppia ricorreva alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (C. c. Italia Ricorso 47196/21).

Nella sua decisione la Corte ha premesso che, secondo la sentenza Mennesson, l’assenza di possibilità di riconoscimento del rapporto di filiazione tra un bambino nato da GPA e padre biologico costituisce una violazione dell’art. 8 CEDU in quanto pone il bambino in una condizione di incertezza quanto alla sua identità nella società. È, pertanto, interesse superiore del bambino che la durata di tale incertezza sia quanto più breve possibile. Nel caso di specie, invece, a seguito del netto rifiuto di trascrivere, anche solo parzialmente, l’atto di nascita la bambina, di soli 4 anni, era stata lasciata fin dalla nascita in una condizione di prolungata incertezza giuridica circa la propria identità e nazionalità, essendo considerata in Italia come apolide.

La Corte EDU ha, pertanto, ravvisato una violazione dell’art. 8 CEDU da parte dell’Italia limitatamente al mancato riconoscimento del legame giuridico tra la bambina e il padre biologico. La violazione non è, invece, stata ravvisata per quanto attiene al rapporto con la madre intenzionale.

Nonostante la sentenza in commento sembri essere sfuggita ai commentatori, essa pare indubbiamente destinata ad avere risonanza in futuro in considerazione del fatto che l’attuale maggioranza politica nel nostro Paese ha presentato una proposta di legge finalizzata a trasformare la stessa GPA in un reato universale.

Senza voler entrare nel merito del dibattito politico, chi scrive ritiene che sul piano tecnico-giuridico, una tale iniziativa legislativa pare da subito destinata ad entrare in rotta di collisione con i vincoli derivanti dal rispetto degli obblighi internazionali ed europei (art. 117 Cost.).

Chat Telegram: la disponibilità di file archiviati sul cloud storage di una chat di gruppo equivale alla detenzione ai fini del reato cui all’art. 600 quater c.p.  

Con sentenza n. 36572/23 del 4.09.2023 la Corte di Cassazione ha affermato che integra il reato di detenzione di materiale pedopornografico ai sensi dell’art. 600-quater, comma primo, cod. pen. la disponibilità di “file” archiviati sul “cloud storage” di una “chat” di gruppo Telegram e accessibili da parte di ogni componente del gruppo che vi abbia consapevolmente preso parte.

Nel proprio ragionamento la Corte ha affermato che non vi è alcuna differenza tra il download dei file sul proprio cellulare e l’accesso incondizionato ad un archivio condiviso tra i partecipanti ad una chat di gruppo. In entrambi i casi, infatti, l’agente ha piena ed incondizionata possibilità di fruire del materiale archiviato indipendentemente dal fatto che sia stato lui stesso od altri ad aver effettuato l’operazione di salvataggio.

La sentenza in commento è di particolare interesse in quanto nelle motivazioni si premette che in campo penale la nozione di “detenzione”, ancorché mutuata dal diritto civile, viene intesa nel senso di mera disponibilità materiale di un bene, prescindendo interamente dall’animus.

La Cassazione penale sulla remissione tacita della querela in caso di mancata comparizione, senza giustificato motivo, del querelante all’udienza alla quale era stato citato come testimone

La sentenza n. 33648/23 del 31.07.2023 della Corte di Cassazione è tornata sul tema della remissione tacita della querela nell’ipotesi di “facta concludentia” del querelante incompatibili con la volontà di persistere nella querela.

Notoriamente la riforma Cartabia (D.lgs 150/22) ha ampliato le ipotesi di remissione tacita della querela previste dall’art. 152 c.p., aggiungendovi anche quella della mancata comparizione del querelante, senza giustificato motivo, all’udienza a cui era stato regolarmente citato per deporre come testimone. Disposizione questa che, per espressa volontà legislativa, non si applica nell’ipotesi in cui il querelante sia persona incapace per ragioni, anche sopravvenute, di età o di infermità o sia persona particolarmente vulnerabile nell’ottica dell’art. 90 quater c.p.p.

La disposizione, inoltre, non si applica neppure se la persona che ha proposto la querela ha agito in qualità di rappresentante di un incapace ovvero di curatore speciale del minore.

La Corte di Cassazione ha chiarito che, al di là delle ipotesi espressamente tipizzate dalla legge, spetta comunque al giudice il compito di accertare, caso per caso e senza alcun automatismo, la sussistenza o meno del giustificato motivo richiesto dall’art. 152 c.p., specie nei casi in cui emergano circostanze da cui poter fondatamente desumere la sussistenza di violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o, comunque un’illecita interferenza.

Solo all’esito di un simile doveroso controllo l’eventuale assenza del querelante potrà essere interpretata come fatto incompatibile con la volontà di voler insistere per la punizione del colpevole e potrà, quindi, essere dichiarata l’improcedibilità dell’azione penale ai sensi dell’art. 152 c.p.  

Cassazione Penale: il decorso del termine di 90 giorni dall’entrata in vigore della Riforma Cartabia senza che sia fornita prova dell’avvenuta presentazione della querela determina l’improcedibilità dell’azione penale.

A distanza di qualche mese dalla sua entrata in vigore iniziano a vedersi gli effetti, della cd. riforma Cartabia circa il mutamento del regime di procedibilità per numerosi reati (ad es. furto aggravato, lesioni stradali ecc.), che un tempo erano procedibili d’ufficio.   

Nella pronuncia che ci accingiamo a commentare, la Corte di Cassazione rileva come la Riforma Cartabia sia ispirata a esigenze di semplificazione e come la stessa non abbia previsto alcun avviso alle persone offese in merito al mutamento del regime di procedibilità, né tantomeno un onere all’Autorità Giudiziaria procedente di informarsi presso la persona offesa o gli uffici della polizia giudiziaria circa l’avvenuta eventuale presentazione della querela.  

La Corte di Cassazione con sentenza n. 31451 del 19.07.2023 ha, infatti, affermato il seguente principio di diritto: “il decorso del termine di novanta giorni dall’entrata in vigore del d.lgs n. 150/2022 senza che l’autorità giudiziaria procedente riceva la prova dell’avvenuta presentazione di querela, a seguito della modifica del regime di procedibilità del reato introdotta dalla predetta normativa, impone la immediata pronuncia della declaratoria di improcedibilità per mancanza di querela, non essendo previsto un formale avviso alla persona offesa della necessità della sua presentazione”.  

Sulla scorta di tale principio la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza della Corte d’Appello di Roma che aveva condannato un uomo per il reato di furto aggravato, dopo aver rilevato d’ufficio che la persona offesa aveva presentato querela oltre il termine di 90 giorni dall’entrata in vigore della riforma.

Sezioni Unite Civili: ammesso il ricorso straordinario per Cassazione ex art. 111 comma 7 Cost. avverso la decisione definitiva sul reclamo in tema di inibitoria al rilascio del passaporto ex art. 3 lettera b) legge 1185/67

Con la recente Sentenza n. 22048 del 24 luglio 2023 le Sezioni Unite Civili hanno affermato che è esperibile il rimedio del ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 comma 7 Cost. avverso il decreto finale con il quale il Tribunale, in sede di reclamo avverso la decisione del Giudice tutelare, accorda o nega l’inibitoria al rilascio del passaporto in favore del genitore di figli minorenni.

Giova, infatti evidenziare che, ai sensi dell’art. 3 bis della Legge 1185/67 Il giudice può inibire per un massimo di due anni il rilascio del passaporto al genitore avente prole minore, quando vi è concreto e attuale pericolo che a causa del trasferimento all’estero questi possa sottrarsi all’adempimento dei suoi obblighi verso i figli. Conseguentemente, ai sensi dell’art. 3 lettera b) non possono ottenere il passaporto coloro che sono risultati destinatari di tale inibitoria. Inoltre, ai sensi dell’art. 12 della medesima legge, il passaporto già rilasciato viene ritirato al sopraggiungere di tale inibitoria oppure ancora quando il titolare si trovi all’estero e, ad istanza degli aventi diritto, non sia in grado di offrire la prova dell’adempimento degli obblighi alimentari, di mantenimento, di assegno divorzile ecc. che riguardino i discendenti di età minore ovvero portatori di handicap grave o inabili al lavoro, gli ascendenti e il coniuge non legalmente separato.

La decisione in commento è di particolare importanza dal momento in cui appronta un rimedio nell’ambito di una procedura, quella camerale, che in condizioni normali non ammette nessuna forma di impugnazione avverso la decisione del giudice del reclamo.

Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316 bis c.p.): la competenza territoriale appartiene al giudice del luogo in cui il soggetto pubblico erogante dispone l’accredito dei contributi, finanziamenti o altre provvidenze a favore di chi ne abbia fatto indebitamente richiesta.

Con sentenza n. 30770/23 del 14 luglio 2023 la Corte di Cassazione ha ribadito che, ai fini della competenza territoriale, il reato di cui all’art. 316 bis c.p. si consuma nel luogo in cui il soggetto pubblico erogante dispone l’accredito dei contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre provvidenze in favore di chi ne abbia fatto indebitamente richiesta.

Nella sua decisione la Cassazione ha anche avuto modo di precisare ulteriormente la distinzione tra il reato di cui all’art. 316 bis c.p. ed il reato di cui all’art. 640 bis c.p. (truffa aggravata ai danni dello Stato). In particolare, il reato di cui all’art. 316 bis c.p. si differenza da quello di cui all’art. 640 bis c.p. per la mancata inclusione, tra gli elementi costitutivi del primo, dell’induzione in errore dell’ente erogatore, il quale si limita a prendere atto dell’esistenza dei requisiti autocertificati dal richiedente, senza svolgere una autonoma attività di accertamento, la quale è riservata ad una fase meramente eventuale e successiva.