Cassazione Civile: domanda cumulata di separazione e divorzio possibile anche con ricorso congiunto.  

Con sentenza n. 28727, del 16/10/2023 la Corte di Cassazione, in sede di rinvio pregiudiziale, ha affermato che è possibile proporre domanda cumulata di separazione e divorzio anche tramite ricorso congiunto dei coniugi.

La pronuncia compone, così, il contrasto interpretativo che si era creato in seno a vari tribunali di merito, che si erano divisi tra quanti ritenevano il cumulo ammissibile anche nella procedura consensuale (es. Tribunale di Milano) e quanti, invece, ritenevano applicabile il cumulo delle domande di separazione e divorzio soltanto alla procedura giudiziale (es. Tribunale di Firenze).

Corte Europea per i diritti dell’Uomo: violazione dell’art. 8 CEDU da parte dell’Italia per mancato riconoscimento del legame parentale tra padre biologico e figlia nata in Ucraina a seguito di GPA

Con una interessante e recente sentenza del 31.08.2023 la Corte EDU ha affrontato la questione del riconoscimento del legame giuridico tra una bambina nata in Ucraina a seguito di una procedura di gestazione per altri (GPA) e i relativi “genitori” costituiti dal padre biologico e dalla madre intenzionale.

In virtù di tale procedura, infatti, la bambina era nata nel 2019 a seguito della fecondazione di un ovulo fornito da una anonima donatrice con il seme del padre biologico. L’embrione veniva, successivamente, impiantato nell’utero di una terza donna che aveva portato avanti la gravidanza per conto della coppia italiana. A seguito del rifiuto, da parte delle Autorità Italiane, di trascrivere il certificato di nascita della bambina per motivi di ordine pubblico, la coppia ricorreva alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (C. c. Italia Ricorso 47196/21).

Nella sua decisione la Corte ha premesso che, secondo la sentenza Mennesson, l’assenza di possibilità di riconoscimento del rapporto di filiazione tra un bambino nato da GPA e padre biologico costituisce una violazione dell’art. 8 CEDU in quanto pone il bambino in una condizione di incertezza quanto alla sua identità nella società. È, pertanto, interesse superiore del bambino che la durata di tale incertezza sia quanto più breve possibile. Nel caso di specie, invece, a seguito del netto rifiuto di trascrivere, anche solo parzialmente, l’atto di nascita la bambina, di soli 4 anni, era stata lasciata fin dalla nascita in una condizione di prolungata incertezza giuridica circa la propria identità e nazionalità, essendo considerata in Italia come apolide.

La Corte EDU ha, pertanto, ravvisato una violazione dell’art. 8 CEDU da parte dell’Italia limitatamente al mancato riconoscimento del legame giuridico tra la bambina e il padre biologico. La violazione non è, invece, stata ravvisata per quanto attiene al rapporto con la madre intenzionale.

Nonostante la sentenza in commento sembri essere sfuggita ai commentatori, essa pare indubbiamente destinata ad avere risonanza in futuro in considerazione del fatto che l’attuale maggioranza politica nel nostro Paese ha presentato una proposta di legge finalizzata a trasformare la stessa GPA in un reato universale.

Senza voler entrare nel merito del dibattito politico, chi scrive ritiene che sul piano tecnico-giuridico, una tale iniziativa legislativa pare da subito destinata ad entrare in rotta di collisione con i vincoli derivanti dal rispetto degli obblighi internazionali ed europei (art. 117 Cost.).

Sezioni Unite Civili: ammesso il ricorso straordinario per Cassazione ex art. 111 comma 7 Cost. avverso la decisione definitiva sul reclamo in tema di inibitoria al rilascio del passaporto ex art. 3 lettera b) legge 1185/67

Con la recente Sentenza n. 22048 del 24 luglio 2023 le Sezioni Unite Civili hanno affermato che è esperibile il rimedio del ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 comma 7 Cost. avverso il decreto finale con il quale il Tribunale, in sede di reclamo avverso la decisione del Giudice tutelare, accorda o nega l’inibitoria al rilascio del passaporto in favore del genitore di figli minorenni.

Giova, infatti evidenziare che, ai sensi dell’art. 3 bis della Legge 1185/67 Il giudice può inibire per un massimo di due anni il rilascio del passaporto al genitore avente prole minore, quando vi è concreto e attuale pericolo che a causa del trasferimento all’estero questi possa sottrarsi all’adempimento dei suoi obblighi verso i figli. Conseguentemente, ai sensi dell’art. 3 lettera b) non possono ottenere il passaporto coloro che sono risultati destinatari di tale inibitoria. Inoltre, ai sensi dell’art. 12 della medesima legge, il passaporto già rilasciato viene ritirato al sopraggiungere di tale inibitoria oppure ancora quando il titolare si trovi all’estero e, ad istanza degli aventi diritto, non sia in grado di offrire la prova dell’adempimento degli obblighi alimentari, di mantenimento, di assegno divorzile ecc. che riguardino i discendenti di età minore ovvero portatori di handicap grave o inabili al lavoro, gli ascendenti e il coniuge non legalmente separato.

La decisione in commento è di particolare importanza dal momento in cui appronta un rimedio nell’ambito di una procedura, quella camerale, che in condizioni normali non ammette nessuna forma di impugnazione avverso la decisione del giudice del reclamo.

E’ legittima la contestazione suppletiva della recidiva anche a fronte di un reato prescritto?  Rimessa la questione alle Sezioni Unite

La questione trae origine da una sentenza di condanna, confermata in appello, per i reati di minaccia aggravata, violazione di domicilio e tentato furto con strappo che sarebbero stati commessi tra il 2011 e il 2012.

La difesa dell’imputato promuoveva ricorso per Cassazione lamentando che la recidiva specifica reiterata e infraquinquennale era stata contestata soltanto all’udienza del 17.09.2020 quando ormai tutti e tre i reati contestati erano ormai prescritti. Sicché, a parere della difesa, il giudice avrebbe dovuto dichiarare l’estinzione dei reati per intervenuta prescrizione, non potendo la contestazione della recidiva far rivivere un reato già prescritto.

La quinta sezione penale della Corte di Cassazione a cui era stato assegnato il ricorso ha rilevato sul punto un conflitto tra due opposti orientamenti giurisprudenziali. Secondo un primo orientamento, la recidiva non sarebbe un mero “status” soggettivo, con la conseguenza che il decorso del termine prescrizionale ne precluderebbe la contestazione (così ex multis Cass. Sez 5  n. 48205 del 10.09.2019). Secondo altro orientamento, invece, la contestazione della recidiva avrebbe natura “ricognitiva” e non costitutiva, con la conseguenza che la stessa non sarebbe preclusa dal maturare della prescrizione (cfr. ex multis Cass. Sez. 2 n. 33871 del 2.07.2010).

La questione è stata, pertanto, rimessa alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione per la decisione.   

Corte Europea per i Diritti dell’Uomo: quando la procedura di ammonimento per i presunti casi di stalking viola l’art. 8 CEDU

Con sentenza del 22.06.2023 nel caso Germano c. Italia (ric. n. 10794/12) la Corte Europea per i diritti dell’UOMO ha deciso all’unanimità che vi è stata violazione dell’art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare) da parte dell’Italia.

Il caso trae origine da un ammonimento emesso dalla Questura di Savona nei confronti del Sig. Germano nel 2009 su richiesta della di lui moglie, la quale si era rivolta alla polizia per lamentare alcuni presunti episodi di molestie e minacce da parte dell’ex marito a seguito della separazione.

In particolare la Corte, nella propria decisione, ha stigmatizzato soprattutto il fatto che le Autorità italiane abbiano dato credito esclusivamente alle allegazioni della donna, ed abbiano emesso l’ammonimento senza che vi fosse prova di una situazione di urgenza e senza dare al sig. Germano alcuna possibilità di partecipare al procedimento fornendo la propria versione dei fatti.  

Mandato di arresto europeo: illegittima la consegna in caso di omessa traduzione in italiano del MAE

Con sentenza n. 24927/2023 del 7.06.2023 la Corte di Cassazione ha annullato la decisione della Corte d’Appello di Genova con la quale era stata disposta la consegna di un cittadino afgano all’Austria per l’esecuzione di una pena detentiva relativa a pregresse condanne per reati in materia di stupefacenti e lesioni personali.

In particolare, la Corte di Cassazione ha osservato che il MAE era stato compilato esclusivamente in lingua tedesca ed era stato soltanto parzialmente tradotto in italiano. Ciò non ha consentito di verificare le modalità di svolgimento dei giudizi che avevano determinato le condanne e il rispetto dei requisiti stabiliti dalla legge n. 69/2005 per i procedimenti in “absentia”.

Sull’illegittimità costituzionale dell’art. 726 c.p. (atti contrari alla pubblica decenza)

Con sentenza n. 95 del 9 marzo – 14 aprile 2022 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 726 c.p. nella parte in cui prevede la sanzione amministrativa pecuniaria «da euro 5.000 a euro 10.000» anziché «da euro 51 a euro 309», operando così un riallineamento della cornice sanzionatoria della norma in esame rispetto a quella prevista
dal codice penale per gli atti osceni commessi con colpa ai sensi dell’art. 527 comma 3 c.p.
Nella propria decisione la Corte ricorda che il principio della proporzionalità, che trova fondamento nell’art. 3 Cost., trova applicazione non solo con riferimento alle norme penali ma anche rispetto alla materia delle sanzioni amministrative. Pertanto, in applicazione del suddetto principio, la Corte Costituzionale ha ritenuto condivisibili le valutazioni espresse dal giudice di pace di Sondrio a mente delle quali la sanzione pecuniaria prevista dalla legge per gli atti contrari alla pubblica decenza (da euro 5.000 a euro 10.000 prevista) appare del tutto sproporzionata rispetto a quella prevista per la fattispecie, addirittura più grave, di atti osceni commessi con colpa ex art 527 comma 3 c.p. (da 51 euro a euro 309).
E tale irragionevole disparità di trattamento sanzionatorio si rivela ancor più ingiustificata se si considera che la norma dichiarata incostituzionale non effettua alcuna distinzione tra fattispecie dolose e fattispecie colpose a differenza di quanto avviene nel caso dell’art. 527 c.p. Da cui la declaratoria di illegittimità costituzionale della cornice sanzionatoria prevista dall’art. 726 c.p.

La responsabilità del medico del pronto soccorso sussiste anche a seguito di cambio turno senza passaggio di consegne formale

Secondo costante giurisprudenza il medico del pronto soccorso è titolare di una posizione di garanzia nei confronti dei pazienti. Ciò sta a significare che egli deve attivarsi per informarsi sulle condizioni di salute dei pazienti che ha in carico e delle cure che necessitano o quantomeno a consultare la cartella clinica, anche nell’ipotesi in cui sia avvenuto un cambio turno senza passaggio formale di consegne tra medici.

È quanto ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 44622/2017 del 27.09.2017 che ha confermato la condanna per omicidio colposo di una dottoressa del pronto soccorso in un caso riguardante il decesso di un uomo per shock emorragico dovuto all’ingestione durante il pasto di un osso di pollo.

Dal processo era, infatti, emerso che l’uomo aveva fatto ingresso al pronto soccorso lamentando un forte dolore allo sterno a seguito del pasto ed aveva informato i medici che durante il pranzo aveva ingerito un osso di pollo. Le linee guida prevedono in tali casi che il paziente venga sottoposto prima a una radiografia del torace e ad una radiografia dell’addome e, successivamente, ad un esame endoscopico onde rilevare la presenza del corpo estraneo.

Il paziente veniva inizialmente sottoposto alle radiografie previste dalle linee guida da parte dei medici che lo avevano preso in carico, le quali davano esito negativo. Successivamente, un’altra dottoressa, subentrata nel turno della mezzanotte, dimetteva il paziente refertando un “dolore toracico atipico”, raccomandandogli di far controllare la pressione arteriosa ed omettendo, tuttavia, di sottoporlo ad esame endoscopico.

Il paziente moriva dopo 5 giorni a causa dello shock emorragico provocato dalla fistolarizzazione dell’aorta e del conseguente shock emorragico provocato dall’osso di pollo precedentemente ingerito.

La disciplina del consenso informato nella nuova legge sul testamento biologico

Lo scorso dicembre è entrata in vigore la legge 219/2017 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, meglio nota come legge sul testamento biologico.

Con tale legge viene assicurata una tutela ampia del consenso informato stabilendo che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi previsti dalla legge”.

Viene, inoltre, promossa e valorizzata la relazione tra paziente e medico, relazione in cui vengono coinvolti, se il paziente lo desidera, anche i famigliari o i conviventi e i partners dell’unione civile o ancora una persona di fiducia del paziente medesimo. Una novità, questa, che recepisce anche a livello normativo le esigenze derivanti dal mutato contesto sociale e familiare italiano.

La legge stabilisce che ogni persona ha diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo aggiornato e a lei comprensibile riguardo alle diagnosi alle prognosi ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi.

È importante sottolineare che, ai sensi della legge in commento, nella nozione di trattamento sanitario vengono per la prima volta ricomprese espressamente anche l’alimentazione e l’idratazione artificiale tramite dispositivo medico. Questa legge interviene, dunque, fermamente nel dibattito che aveva interessato i casi Englaro e Welby, in cui molti la posizione di molti tra coloro che si dicevano contrari a staccare i macchinari faceva leva sull’argomento per cui alimentazione artificiale non poteva considerarsi un trattamento sanitario.

Da ultimo, la nuova legge impone al medico di rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciarvi e, in conseguenza di ciò, il medico viene esentato da ogni forma di responsabilità civile o penale.

Nelle situazioni di emergenza e di urgenza, il medico e i componenti dell’equipe sanitaria assicurano le cure necessarie nel rispetto della volontà del paziente ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla.

Questa legge marca il definitivo tramonto della concezione paternalistica del rapporto paziente- medico, che vedeva il paziente affidarsi quasi ciecamente alle cure e alle scelte del medico, e segna dunque il passaggio definitivo ad una relazione paritaria fondata sulla fiducia e sul consenso informato.

Mancato pagamento dell’assegno di divorzio o di separazione. Conseguenze sul piano penale

Lo scorso 6 aprile 2018 è entrato in vigore il nuovo articolo 570 bis c.p. riguardante la “Violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio”.

Questa nuova figura di reato recepisce all’interno del codice penale quelle condotte delittuose che sino a prima erano sanzionate da specifiche disposizioni della legge sul divorzio (art. 12 sexies L. n. 898/70) e dalla legge sull’affido condiviso (art. 3 L n. 54/06), le quali sono state conseguentemente abrogate.

La nuova disposizione prevede l’applicabilità delle pene già previste dall’art. 570 c.p., ossia la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 103 a euro 1.032.  “al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di divorzio/nullità del matrimonio ovvero che viola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli..

La nuova figura di reato appronta, dunque, una tutela più ampia rispetto a quella originariamente prevista dall’art. 570 comma 2 c.p.

Se, tradizionalmente, infatti, il Codice Rocco puniva soltanto le condotte del coniuge che faceva mancare i mezzi di sussistenza ai figli minori o inabili al lavoro o al coniuge non separato per colpa, il nuovo art. 570 bis c.p. ricollega, invece, la sanzione penale al mero inadempimento dell’obbligo di corresponsione dell’assegno (di qualsiasi tipologia esso trattasi) stabilito in sede di divorzio o di separazione dal giudice civile in favore dei figli (non necessariamente minorenni, purché non autosufficienti) o dell’altro coniuge. Irrilevante, in quest’ultimo caso, lo stato di bisogno dell’avente diritto.

Come già a suo tempo precisato dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento alle fattispecie abrogate, anche la nuova figura di reato può essere commessa soltanto nell’ambito delle coppie coniugate. Nell’ipotesi di violazione degli obblighi economici scaturenti dalle convivenze more uxorio è, invece, applicabile soltanto la meno ampia tutela di cui all’art. 570 comma 2 c.p. (v. Cass., Sez. VI, 6.4.2017, n. 25267)