Corte Europea per i Diritti dell’Uomo: l’abuso dell’amministrazione di sostegno viola l’art. 8 CEDU.

Con l’interessante sentenza del 6.07.2023 la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha recentemente statuito che vi è stata violazione dell’art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare) per effetto dell’abuso, da parte delle autorità italiane, dell’istituto dell’amministrazione di sostegno.

Il caso trae origine dal ricovero in una RSA di un anziano avvenuto su richiesta dell’Amministratore di Sostegno nominato dal Tribunale. A seguito di tale ricovero l’anziano è rimasto completamente isolato per circa tre anni in quanto impossibilitato a comunicare con familiari ed amici se non per il tramite dell’Amministratore di Sostegno o dietro autorizzazione del giudice tutelare.

La Corte ha osservato che, pur avendo le autorità italiane agito al fine di perseguire l’obiettivo legittimo di proteggere il benessere del beneficiario in ragione della sua condizione di prodigalità e di indebolimento fisico e mentale, hanno adottato misure gravi e non proporzionate rispetto alle circostanze individuali, superando così il proprio margine di apprezzamento.

Inoltre la Corte ha affermato che, nel caso di specie, le autorità hanno, altresì, abusato della flessibilità dello strumento dell’amministrazione di sostegno per perseguire finalità che la legge italiana assegna, entro limiti rigorosi, al trattamento sanitario obbligatorio.

Corte Europea per i Diritti dell’Uomo: plurime violazioni dei diritti fondamentali in ordine alle condizioni dell’“hotspot” di Lampedusa

Con sentenza del 30.03.2023 resa nel caso J.A. e altri c. Italia (ric. n. 21329/18), la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha affermato che vi è stata violazione dell’art. 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti), art. 5 (diritto alla libertà e sicurezza) della CEDU e art 4 del Protocollo n. 4 allegato alla CEDU (divieto di espulsione collettiva degli stranieri) da parte dello Stato italiano nei confronti di cittadini tunisini che erano stati salvati da una nave nel Mar Mediterraneo ed erano stati trattenuti per dieci giorni presso l’ “hotspot” di Contrada Imbriacola, sull’isola di Lampedusa.

Sulla violazione dell’art. 3 la Corte ha ricordato che il divieto di trattamenti inumani o degradanti di cui all’art. 3 CEDU ha valore assoluto e non può essere ignorato neppure per via delle maggiori difficoltà derivanti dall’accresciuto afflusso di migranti e richiedenti asilo. Fatta tale premessa la Corte ha rilevato che il Governo italiano non aveva prodotto elementi sufficienti a dimostrare che le condizioni dell’“hotspot” di Lampedusa fossero accettabili e, di conseguenza, ha ritenuto che i ricorrenti erano stati sottoposti a trattamenti inumani e degradanti.

Con riferimento alla violazione dell’art. 5, la Corte ha affermato che i ricorrenti erano stati trattenuti all’interno dell’hotspot per dieci giorni in una condizione di “detenzione de facto”, senza una base giuridica chiara e senza fornire ai ricorrenti informazioni sufficienti per contestare il loro stato di detenzione dinanzi ad un Tribunale.

Quanto invece alla violazione dell’art. 4 del Protocollo 4 la Corte Edu ha, infine, evidenziato come le singole posizioni dei ricorrenti non siano state valutate in modo individuale prima dell’adozione dei provvedimenti di respingimento da parte delle autorità che, in tal modo, aveva dato luogo ad una forma di espulsione collettiva vietata dalla Convenzione.

E’ legittima la contestazione suppletiva della recidiva anche a fronte di un reato prescritto?  Rimessa la questione alle Sezioni Unite

La questione trae origine da una sentenza di condanna, confermata in appello, per i reati di minaccia aggravata, violazione di domicilio e tentato furto con strappo che sarebbero stati commessi tra il 2011 e il 2012.

La difesa dell’imputato promuoveva ricorso per Cassazione lamentando che la recidiva specifica reiterata e infraquinquennale era stata contestata soltanto all’udienza del 17.09.2020 quando ormai tutti e tre i reati contestati erano ormai prescritti. Sicché, a parere della difesa, il giudice avrebbe dovuto dichiarare l’estinzione dei reati per intervenuta prescrizione, non potendo la contestazione della recidiva far rivivere un reato già prescritto.

La quinta sezione penale della Corte di Cassazione a cui era stato assegnato il ricorso ha rilevato sul punto un conflitto tra due opposti orientamenti giurisprudenziali. Secondo un primo orientamento, la recidiva non sarebbe un mero “status” soggettivo, con la conseguenza che il decorso del termine prescrizionale ne precluderebbe la contestazione (così ex multis Cass. Sez 5  n. 48205 del 10.09.2019). Secondo altro orientamento, invece, la contestazione della recidiva avrebbe natura “ricognitiva” e non costitutiva, con la conseguenza che la stessa non sarebbe preclusa dal maturare della prescrizione (cfr. ex multis Cass. Sez. 2 n. 33871 del 2.07.2010).

La questione è stata, pertanto, rimessa alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione per la decisione.   

Corte Europea per i Diritti dell’Uomo: violazione dell’art. 6 CEDU (diritto ad un processo equo) da parte di una decisione della Corte di Cassazione fondata su motivi diversi rispetto a quelli invocati dalle parti.

Con sentenza del 29 giugno 2023 la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, pronunciandosi sul caso Ben Amamou c. Italia, ha affermato che vi è stata violazione dell’art. 6 CEDU (diritto ad un processo equo) da parte della decisione della Corte di Cassazione n. 8386/20 del 29.04.2020

Il caso trae origine dalla procedura giudiziaria avviata in Italia dal sig. Ben Amamou il quale, mentre si trovava a bordo di una vettura in qualità di terzo trasportato, era rimasto vittima di un grave incidente stradale provocato da un veicolo rimasto non identificato.

La richiesta di risarcimento diretto spiegata ai sensi dell’art. 141 Cod. Ass. dal sig. Ben Amamou nei confronti dell’Assicurazione del veicolo ove si trovava a bordo veniva respinta sia dal Tribunale che dalla Corte d’Appello di Perugia per le medesime motivazioni: l’azione diretta ex art 141 Codice Assicurazioni Private richiede che entrambi i veicoli coinvolti siano identificati e assicurati contro la responsabilità civile. In mancanza, il danneggiato dovrà rivolgersi al Fondo Vittime della Strada.

Il sig. Ben Amamou promuoveva ricorso per cassazione avverso la decisione della Corte d’Appello. La Corte di Cassazione respingeva il ricorso sul presupposto che “l’azione diretta del terzo trasportato nei confronti dell’assicuratore del proprio vettore è data a condizione che sia individuabile una responsabilità concorrente, anche soltanto presunta, del conducente del veicolo sul quale il terzo trasportato viaggiava”.  In altri termini, nonostante l’intero processo di merito si fosse basato sull’interrogativo se l’art. 141 Cod. Ass. richiedesse o meno che tutti i veicoli coinvolti nel sinistro fossero identificati, la Corte di Cassazione aveva finito col fondare la propria decisione su di un motivo diverso: il mancato accertamento di una eventuale corresponsabilità del trasportatore.

Secondo la decisione della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo l’esigenza di rispettare il contraddittorio avrebbe richiesto che la Corte di Cassazione sottoponesse alle parti la questione rivelatasi, poi, decisiva ai fini del giudizio. Poiché, pertanto, il ricorrente era stato “preso alla sprovvista” dalla sostituzione dei motivi presi in considerazione dalla Corte, egli non ha potuto beneficiare di un processo equo come garantito dall’art. 6 CEDU. 

Maltrattamenti in famiglia: ove parte della condotta venga commessa sotto la vigenza di una legge successiva più sfavorevole al reo, quest’ultima troverà applicazione soltanto nel caso in cui, dopo la sua entrata in vigore, venga realizzato un segmento di condotta sufficiente ad integrare l’abitualità del reato.

La recentissima sentenza n. 28218 del 28.06.2023 della sesta sezione penale della Cassazione potrebbe avere una portata rivoluzionaria in tema di individuazione del tempus commissi delicti nei reati permanenti o abituali (quali ad.  s. i maltrattamenti in famiglia).

Notoriamente oggi, secondo l’orientamento giurisprudenziale e dottrinario assolutamente prevalente, al fine di individuare il tempus commissi delicti (indi la legge in concreto applicabile) ai reati di durata, occorre avere riguardo al momento in cui la condotta si esaurisce, cioè all’ultimo atto che protrae la situazione antigiuridica. Di talché, se anche solo un segmento della condotta viene compiuto durante la vigenza di una legge successiva più sfavorevole al reo, sarà quest’ultima a trovare applicazione.  

La sentenza in commento, muovendo da alcune considerazioni già svolte da Cass. SU n. 40986 del 19.07.2018 oltre che dalla giurisprudenza della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (Grande Camera 27.01.2015  Rholena c. Repubblica Ceca) ha, invece, affermato che, nel caso in cui intervenga una legge successiva più sfavorevole al reo, ai fini dell’applicazione di quest’ultima sarà necessario che dopo l’entrata in vigore di tale legge venga realizzato un segmento di condotta sufficiente ad integrare l’abitualità del reato.  

Le ricadute pratiche di questo ragionamento sono notevoli. Si pensi al caso dei maltrattamenti. Se fino ad oggi, infatti, si è ritenuto che la commissione anche di un solo episodio di maltrattamenti durante la vigenza della legge successiva sfavorevole sarebbe sufficiente ad attrarre nell’orbita del più grave trattamento sanzionatorio anche tutte le condotte pregresse, da oggi le cose potrebbero cambiare.

Il giudice sarebbe, infatti, tenuto ad accertare non soltanto se l’ultimo atto della sequenza criminosa sia stato commesso sotto il vigore della nuova legge più sfavorevole, ma dovrà anche verificare se a seguito dell’entrata in vigore di quest’ultima siano state poste in essere delle condotte sufficienti ad integrare l’abitualità del reato.  

Reato di invasione di edifici e case popolari: il reato sussiste solo se l’occupazione “sine titulo derivi da una condotta di invasione arbitraria  

Con sentenza n. 25382/23 pronunciata all’udienza del 17.05.2023 la Corte di Cassazione Sez. VI^ ha avuto modo di precisare l’ambito di applicazione dell’art. 633 c.p. in tema di invasione di edifici con specifico riferimento agli alloggi di edilizia popolare.

La Corte ha, infatti, spiegato che la funzione della norma incriminatrice in questione è quella di sanzionare unicamente “l’invasione” e non anche qualsiasi altra forma di detenzione sine titulo, quale potrebbe essere quella derivante dal mancato rilascio di un immobile precedentemente legittimamente posseduto. In quest’ultima fattispecie, infatti, sarà al più configurabile un illecito civilistico o una violazione rilevante ai fini del procedimento amministrativo, ma si è necessariamente al di fuori della previsione tipica dettata dall’art. 633 c.p.

La vicenda trae origine dal sequestro preventivo disposto dal Tribunale di Latina di un appartamento di proprietà dell’ATER. Detto appartamento era stato, in principio, legittimamente assegnato ad una donna nei cui confronti era successivamente intervenuto un decreto di decadenza dall’assegnazione.

La Corte di Cassazione, ribadendo il proprio consolidato orientamento, ha annullato la decisione impugnata affermando che la condotta tipica del reato di invasione consiste nell’introduzione dall’esterno in un fondo o in un immobile altrui di cui non si abbia il possesso o la detenzione, sicché l’invasione non ricorre laddove il soggetto, entrato legittimamente in possesso del bene, prosegua nell’occupazione contro la sopraggiunta volontà dell’avente diritto.  

Corte Europea per i Diritti dell’Uomo: quando la procedura di ammonimento per i presunti casi di stalking viola l’art. 8 CEDU

Con sentenza del 22.06.2023 nel caso Germano c. Italia (ric. n. 10794/12) la Corte Europea per i diritti dell’UOMO ha deciso all’unanimità che vi è stata violazione dell’art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare) da parte dell’Italia.

Il caso trae origine da un ammonimento emesso dalla Questura di Savona nei confronti del Sig. Germano nel 2009 su richiesta della di lui moglie, la quale si era rivolta alla polizia per lamentare alcuni presunti episodi di molestie e minacce da parte dell’ex marito a seguito della separazione.

In particolare la Corte, nella propria decisione, ha stigmatizzato soprattutto il fatto che le Autorità italiane abbiano dato credito esclusivamente alle allegazioni della donna, ed abbiano emesso l’ammonimento senza che vi fosse prova di una situazione di urgenza e senza dare al sig. Germano alcuna possibilità di partecipare al procedimento fornendo la propria versione dei fatti.  

Riforma Cartabia e reati divenuti procedibili a querela: la volontà di punizione può essere desunta anche dalla costituzione di parte civile

Con sentenza n. 19971/23 del 11.05.2023 la Corte di Cassazione ha chiarito un dubbio importante che ha tormentato gli operatori del diritto a seguito dell’entrata in vigore della cd. Riforma Cartabia (D.lgs 150/22).

Notoriamente, la riforma ha modificato il regime di procedibilità per numerosi reati contro la persona e contro il patrimonio, che sono divenuti procedibili a querela di parte (esempio tra tutti il reato di lesioni personali stradali ex art. 590 bis c.p. nella forma non aggravata). Trattandosi di disposizione maggiormente favorevole al reo e quindi applicabile anche ai procedimenti in corso, la riforma ha introdotto un regime intertemporale (art. 85 D.lgs 150/22) prevedendo la possibilità, per la persona offesa che avesse avuto conoscenza del procedimento prima dell’entrata in vigore della nuova legge, di presentare querela entro tre mesi dalla data di entrata in vigore. Ciò ha provocato numerosi dubbi interpretativi nei casi in cui la persona offesa aveva omesso di proporre formale querela nel termine indicato.

Orbene con la decisione in commento la Cassazione, richiamando un proprio importante precedente (Cass. Sez V n. 2665/22 del 24.01.2022), ha affermato che la sussistenza della volontà di punizione da parte della persona offesa non richiede formule particolari, giacché può essere riconosciuta dal giudice anche in atti che non contengono la sua esplicita manifestazione quali la costituzione di parte civile o anche la semplice riserva di costituirsi parte civili. Anche tali atti, secondo il ragionamento della Corte, vanno interpretati alla luce del cd. “favor querelae”.   

Omicidio stradale: obbligo di motivazione in caso di applicazione di sanzione accessoria della sospensione della patente in misura superiore alla media edittale

Con sentenza n. 25345/23 del 11.05.2023 la Corte di Cassazione ha annullato la decisione del Tribunale di Macerata nella parte in cui ha applicato al condannato, in sede di patteggiamento per il reato di cui all’art. 589 bis c.p. (omicidio stradale), la sanzione accessoria della sospensione della patente determinandola in anni 3 e mesi 6, ridotta poi ad anni 2 e mesi 4 per il rito.

In motivazione la Corte ha osservato che è principio consolidato quello per cui il giudice, che applichi con la sentenza di patteggiamento la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, non deve fornire una motivazione sul punto, allorché la misura si attesti non oltre la media edittale.

Qualora, invece, il giudice applichi la sanzione in misura superiore alla media edittale, ha l’onere di fornire una motivazione della durata che tenga conto, tra le altre cose, dell’entità del danno apportato, della gravità della violazione commessa e del pericolo che l’ulteriore circolazione potrebbe cagionare.

Reati ambientali: la messa alla prova è subordinata all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato.

Con sentenza n. 5910/23 del 13.02.2023 la Corte di Cassazione ha annullato una decisione con la quale il Tribunale di Messina aveva pronunciato l’estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova, nonché l’ordinanza di ammissione alla MAP, nei confronti di un imputato accusato di avere, nella qualità di titolare di una ditta individuale, depositato in modo incontrollato e senza autorizzazione rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi.

In particolare, la Suprema Corte ha rilevato che l’ordinanza di ammissione alla MAP non conteneva alcuna prescrizione volta all’eliminazione delle conseguenze dannose e pericolose del reato, in violazione di quanto stabilito dall’art. 168-bis c.p.

Pertanto, nel disporre la restituzione degli atti al Tribunale di Messina, la Corte ha precisato che il giudice di primo grado dovrà verificare se l’imputato abbia prestato le condotte dirette all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato e, in caso contrario, ne prescriverà l’adozione precisandone i termini e le modalità.